Il 30 settembre a Roma risplendeva un sole caldo mentre gli autisti dei torpedoni giunti nella capitale per accompagnare le truppe cammellate del Partito Democratico, cercavano parcheggio tra la giungla di divieti che blindano la città.

L'immagine del reggente Maurizio Martina che in maniche di camicia usa tutto il (poco) fiato che ha in gola per arringare la moltitudine di anziani e disoccupati in cerca di emozioni forti, fa quasi tenerezza.

E' doveroso che un partito che ha governato sino a pochi mesi fa e che da sei mesi è scomparso nelle nebbie dell'oblio si faccia parte diligente nel radunare i  propri iscritti con l'obbiettivo di restituire alle televisioni intervenute per l'occasione, un'immagine di folla festante.

E' incredibile come i dirigenti di questo partito però non abbiano compreso le loro colpe nell'aver travisato il messaggio ventriloquesco del popolo italiano e sopratutto il cambiamento del sistema politico verso modelli a loro sconosciuti e di cui non comprendono la reale entità.

I tempi della grande manifestazione anti-berlusconi che si tenne sotto gli ombrelli in un tetro pomeriggio domenicale milanese ai tempi dell'Ulivo, sono solo un ricordo che emoziona gli appassionati del cinema di morettiana memoria. Per il resto l'autocoscienza e la consapevolezza della democrazia in pericolo non fanno più parte del sentire delle persone che oggi applaudono un manipolo di tribuni, dispensatori di proclami.

Ma tan'è: i voti queste nuove forze di movimento li hanno raccolti uno per uno, grazie ad un effetto moltiplicatore che ne ha sancito il successo, senza lasciare nemmeno lo spazio della rivincita.

E' indispensabile non disperdere energie utili ad altri scopi, ed anche se continuano ad esistere persone entusiaste che in cambio di una bottiglietta d'acqua ed un panino al salame si fanno trasportare alla ricerca del segnale che confermi loro l'esistenza in vita, sarebbe bene astenersi dal considerarli dei fessi.

 

 

La nuova casetta di Renzi, il rogito che prelude alla gratifica di un piccolo politico insulso che solo qualche mese fa aveva dichiarato che il suo conto in banca non arrivava a coprire le spese di un anno di una famiglia di diseredati.

L'Italia non perde mai occasione per non rendersi ridicola. L'allargamento delle fasce di miseria, non solo economica, sta bruciando in questa estate di navi e di corpi di ogni colore il residuale buonsenso. Si deve sempre fuggire per non guardare in faccia la realtà, si nasconde la polvere sotto il tappeto, si muore per invidia e per disperazione.

Tutti vogliono tutto: si parte con le ciabatte di gomma del negozio cinese, con un trolley di plastica moscia riempito di abiti sintetici da intossicazione per recarsi in spiaggia ad Alassio e vedere da vicino gli ultimi eredi delle famiglie piemontesi e milanesi che con maglie ed orologi-patacca (si, anche loro) esibiscono abbronzature-mogano già il primo giorno di luglio.

L'amministrazione alassina ha predisposto la caccia ai pendolari del pediluvio che con pullman e borse della spesa piene di alette di pollo del discount e gassose germaniche, arrivano in massa ad intasare le strade del "budello"; quel vicolo che odora di piscia come tanti altri vicoli italiani, ma che ad Alassio deve essere appannaggio esclusivamente di chi ha un conto in banca alimentato dai lasciti dei nonni con le grisaglie di agnellesca memoria. E intanto ordiniamo un prosecco, per cominciare...

Erano belli i tempi delle pensioncine di riviera che alle dieci di mattina, con l'odore del fritto misto, davano la sveglia alle stanze al piano superiore alle famiglile che trascorrevano, se potevano, le loro due settimane al mare.

Finiti i tempi di Capalbio, forse resiste Cortina e i suoi libri. L'estate è amore e capoeira in tutte le radio, nei bar coperti da cupole di paglia che nemmeno a Miami negli anni ottanta servivano beveroni così orrendi.Si punta tutto sull'effetto Sardegna dopo la porta sbattuta in faccia a Flavio Briatore dalle amministrazioni salentine.

Mai gli italiani sonto stati tanto miserabili, senza memoria ed incapaci di guardare avanti, sovrappeso perchè mangiano male pur di non mangiare a casa, irretiti dai tatuaggi e dalle unghie finte. E allora via all'orgia del gratta e vinci, che magari ci scappa pure a fine ottobre la crocera low cost..tanto saremo in cassa integrazione.

Che la festa della finzione continui, fino alle prime luci delll'alba quando i dobermann della polizia municipale di Alassio vi chiederanno i documenti per identificarvi e rispedirvi nelle vostre bicocche di città. Ma qualcuno, sotto sotto, si sente ancora piccolo-borghese.

 

La banana flambè e il misto creme Copa Mundial sono stati edulcoranti della società italiana che hanno segnato l'inizio di un ciclo negativo. Gianni Agnelli dalla tribuna del Camp Nou di Barcellona intervistato la notte della Coppa del Mondo di calcio vinta dall'Italia nel 1982 aveva dichiarato: "sono finiti i tempi delle vacche grasse" . In quella ubriacatura di urla e bandiere vittoriose il popolo bue deve averlo considerato quantomeno uno iettatore. La profezia non ha tardato a palesarsi e vent'anni dopo l'Italia era gia sprofondata nel guano, con fuori solo la testa.

Sono nel frattempo trascorsi altri quindici anni e lo scenario apocalittico dell'economia italiana, di un popolo dall'età media elevatissima, alimentato dal gravame dell'assistenza a un esercito di disperati arrivati da ogni dove restituisce un quadro dalle tinte burrascose. Il romanticismo della pittura di Turner però c'entra poco.

La storia tuttavia si ripete: dagli scioperi a Piombino per l'elemosina della disoccupazione al detestato padre del venefico trattato di Maastricht portatore della moneta unica Romano Prodi che si riprende la rivincita sul giovane-vecchio democristiano Matteo Renzi, Baffino che si aggira per piazza SS Apostoli: sono segnali inequivocabili del ritorno al passato. Quel passato tanto rimpianto da chi si recava nelle sezioni di partito a chiedere di evitare la naja al il figlio, a chi da anni attendeva un'autorizzazione amministrativa per aprire un chiosco delle angurie, a chi sperava di trovare ricovero in una casa di riposo convenzionata per non farsi scuoiare dalle badanti ante-litteram, che anzichè dalla Moldavia arrivavano da Fiumefreddo e da Reggio Calabria.

Quell'Italia che solo alcuni film di Castellano e Pipolo riescono a ricordarci la domenica mattina sui canali esoterici della televisione di stato, tornerà sotto altre spoglie. Con meno speranze, meno pretese, meno sogni di carriere e di seconde case.

Torneremo all'estate in città, dimenticando per sempre l'orgasmo dei voli low cost e dei mojitos consumati al Pachà di Ibiza dove il mondo si è sempre divertito imbottito di droga e di soldi finti.

Ed ecco che la saracinesca di un bar, in una assolata piazza di Gradoli o di Strangolagalli si alzerà la mattina presto e insieme a qualche conoscente si potrà tornare a bere la cedrata, con il suo inconfondibile colore giallo che i nostri figli non hanno mai conosciuto.

 

Non esiste qualcosa di più difficile da descrivere dell’abbandono della capacità di sognare. Il ciclo della vita è diviso in quattro settori, impossibili da definire in anticipo ma solo descrivibili una volta che il tempo li ha dichiarati trascorsi. Si nasce, si diventa adulti, si invecchia e si muore. Queste sono le quattro fasi inesorabili cui l’individuo non può sottrarsi, neppure i più distratti e disorganizzati fatalisti.

I sogni sono sempre gli stessi, cambiano i tempi e le emozioni con cui vengono vissuti. Nei primi quindici anni di vita essi sono materiali, molto colorati e spesso si riescono ad esaudire grazie all’amore dei genitori; dopo tutto diventa più difficile per il sempre minore tempo destinato allo svago e i desideri inesauditi dei grandi amori che non hanno un prezzo da poter pagare per ottenere ciò che si desidera e non ti lasciano chiudere gli occhi la notte, regalano nostalgie persistenti nel tempo che a volte durano sino alla fine.

Ma è la terza fase la più complicata, la più lunga: il tempo comincia a correre più veloce, il desiderio di disegnare le tracce di un futuro adulto, di una famiglia o di una carriera, di un progetto di vita. L’ansia di partire col piede giusto per evitare retromarce dispendiose spesso conduce ad errori di traiettoria, sempre meno correggibili con l’incedere del tempo.

Giunto ai quarant’anni la nascita di un figlio mi ha costretto ad accelerare il processo decisionale sul futuro, sino a poco prima considerato una meravigliosa entità che restituiva il senso dell’infinito. Ed ecco che abbandonata la vita scandita dalle buste paga di un lavoro sicuro ho sognato per la mia famiglia un futuro diverso, più ricco di emozioni ma anche di rischi che alla fine, in quanto tali, non potevano che condurre ad un bilancio positivo considerato il sacrificio che ben sapevo mi avrebbe atteso negli anni che sarebbero venuti.

Quei dieci anni sono trascorsi ed avevo centrato tutte le previsioni, tranne una: il risultato positivo alla fine della lunga fatica che non solo non si è materializzato ma al contrario ha ucciso il mio sogno. Oggi che alle spalle si è chiusa una porta ho capito che non ho più l’energia per immaginare qualcosa di diverso da un’atteggiamento difensivo, in un’epoca in cui nel mio Paese è diventato impossibile lavorare con le proprie risorse, dove la tenaglia del debito consegna ogni azienda alle spire mortali del credito concesso dalle banche, ben consapevoli che nessuno potrà più uscire a respirare e vivere con le proprie energie e per questo sempre più rassicuranti e disponibili a concedere ossigeno a caro prezzo, sino alla capitolazione.

Non ho rimpianti se non aver disperso i migliori anni dedicando me stesso ad una causa che ho quasi subito compreso essere persa in partenza ma convincendomi del contrario per non dover un giorno, da vecchio, pronunciare la fatidica frase : se ci avessi provato.

Così resta la consolazione di aver capito in tempo che era indispensabile staccare la spina, spegnendo il sogno e ritrovandomi ancora al punto di partenza, in una corsa senza fine che in fondo rappresenta la vita.

Andrea Reali, 1 dicembre 2017 (ex commerciante di alimentari)

 

Avevo l'età di mio figlio quando il 16 marzo 1978 un bidello della scuola media Manzoni si affacciò dalla porta di legno grigio comunicando che tutti i ragazzi sarebbero dovuti uscire e rientrare nelle loro case. Non credo che quell'uomo potesse portare una notizia migliore ad una classe di dodicenni. Non capii nemmeno la gravità del motivo per cui quella mattina fummo fatti uscire in anticipo, neppure quando gli adulti presenti nell'atrio della scuola comunicarono che era stato rapito il presidente della DC e sterminate le guardie che lo proteggevano. Quel giorno sulla strada verso casa acquistai in un'edicola di via Madama Cristina il mio primo quotidiano: l'edizione straordinaria di Stampa Sera (che chiuse la redazione pochi anni dopo). Quell'anno ancora oggi è considerato l'ultimo del periodo più nero della storia repubblicana del dopoguerra anche se l'eversione insanguinò l'Italia ancora per qualche tempo, per poi spegnersi e dare vita ad un nuovo Paese che finalmente si sentiva liberato dalla cappa oppressiva della politica violenta, della lotta di classe, dei proiettili nelle gambe di uomini che facevano il loro lavoro. L'economia e la speranza ripresero a correre.
A distanza di quasi quarant'anni quell'Italia è sprofondata in un baratro se possibile ancora più sepolcrale, nella melmosa palude della corruzione espansa in ogni ganglio dell'amministrazione dello Stato, in fondo ad un cratere dalla cima del quale la classe dirigente che occupa abusivamente le istituzioni guarda verso il basso, quasi con compassione, incapace di fermare il turbine della corsa all'accaparramento di ciò che resta, dell'ultima fettina di torta. Oggi, a differenza di quel giorno di primavera, credo di aver capito che la gente non riesca più a distinguere il bene dal male, i buoni dai cattivi. Oggi la gente è ridotta in schiavitù da un nemico per nulla immaginario e guarda dal basso verso l'alto sperando che dalla cima del cratere qualcuno trovi la pietà di buttare nel buco qualcosa da mangiare.