E' venerdì sera, ultimo giorno d'estate, e mi trovo a percorrere a piedi senza meta le strade di Cecina guardando nel silenzio questa città di ventisettemila abitanti, con i suoi muri, le villette tutte diverse e i palazzi di dieci piani che disegnano le epoche dei geometri senza gusto, le insegne accese e quelle spente. Le vie di una città di mare di inizio secolo.

I segni di un passato glorioso ci sono ancora, da almeno due decenni appannato da ferite di abbandono, di degrado, di oblio. Nel 2019 scenari e angoli così desolati si vedono in agglomerati urbani di altri continenti: escludendo le aree più remote dell'Italia dove la morte dei paesi sta svuotando l'Italia interna, anche in Abruzzo, Molise e Basilicata i centri della città sono curati meglio.
Non c'è in giro nessuno e nell'assenza di persone, fari di auto, telefonini che suonano e rumori di ogni genere vengono in superficie i muri delle case, le grondaie ammaccate, i gradini di marmo scassati, infissi di alluminio anodizzato sporchi da anni che chiudono bassi disabitati, le vetrine e i vestiboli polverosi di decine di attività chiuse pieni di volantini di supermercati e cartacce di ogni genere, i cestini dei rifiuti che non ci sono, l'asfalto a buchi, gli orrori edilizi.
Solo viale Matteotti, nel tratto recentemente ripristinato e portato al decoro con nuovi marciapiedi peraltro già sporchi e con colate di liquidi, gelati sciolti, gomme americane che li punteggiano a migliaia perché nessuno li lava, ha l'aspetto di una città che ha ancora una residuale voglia di esistere. Il resto è uno scenario raccapricciante.
La speculazione edilizia degli anni Ottanta, posta in essere da capitali raccolti in decenni di lavoro quando Cecina era città operosa ed aveva ancora uno zuccherificio, una industria conserviera, calzaturifici e altre attività artigianali è quanto ci resta ed ha addormentato i cittadini proprietari di immobili nel loro percorso verso una vita migliore, che se non riescono più ad affittare le loro casette ai turisti in estate (che non accettano più di spendere ottocento euro per una settimana in abitazioni fatiscenti e umide), cercano di venderle a prezzi che il mercato - in altre zone dell'Italia - non paga più da almeno dieci anni. E allora le abbandonano, lasciano che l'aria salmastra divori gli intonaci e le persiane.
Nessuno dice nulla, il sindaco è stato rieletto forse perché quanto ha fatto durante il primo mandato ha soddisfatto i suoi elettori, ma Cecina è cadente, come una vecchia sdentata dove le attività commerciali pagano affitti stratosferici per servire una clientela che vorrebbe essere accolta da una città diversa.
Mentre la città perde i pezzi gli anziani si ritrovano nei bar di quando erano ragazzi ed anche i ragazzi di oggi preferiscono sedersi a bere birra piuttosto che fare qualcosa per la città in cui vivono, anche solo andando a lavorare.
E' un errore grave che la Toscana, un tempo meta di turismo proveniente da ogni angolo del mondo, in questa parte della provincia di Livorno non sia stata in grado dopo il 1985 di interpretare il cambiamento, di investire su se stessa, per i suoi figli, anziché sdraiarsi aspettando la prossima stagione estiva che non porterà niente di più del poco che ha restituito in questa estate appena finita.
Le città del nordest e la costa adriatica sono modelli virtuosi dove le persone hanno ancora il desiderio di vivere, perché pagano le tasse, in città accoglienti dove si possa immaginare un futuro di benessere e qualità della vita in un Paese dove il territorio, la campagna e il paesaggio sono nell'Italia minore l'unico patrimonio rimasto.
Tra poco sarà ancora inverno e la tramontana restituirà atmosfere bellissime in arrivo dal cielo e dal mare mentre la Città dimenticata, incapace di apprezzare la fortuna di trovarsi in una zona dell'Italia meravigliosa, gli volterà le spalle incapace di ricambiare.
 

Raramente riporto qui parole di altri, anzi non l'ho mai fatto. Ma la mezza estate che viviamo senza entusiasmo e che dovremmo godere dopo un lungo anno di lavoro, è stata inquinata dalle vicende grottesche di una crisi di governo senza nemmeno un timoniere interessato a condurla.

Affido così ad Attilio Bastianini, dirigente del Partito Liberale Italiano nella Prima repubblica, il compito di illustrare come un liberale possa oggi trovare uno spazio di sopravvivenza in uno scenario degradato, quando non offensivo dell'intelligenza di un popolo intero. Ecco il suo pensiero in una lettera del Febbraio 2015

È normale che un cittadino si chieda: chi voterei, se domani vi fossero elezioni? L’interrogativo merita una correzione: se si votasse e se si votasse con il sistema elettorale che è in corso di approvazione (premio alla lìsta, capolista bloccati, mono cameralismo imperfetto, etc.) chi voterei?
La domanda diventa ancora più interessante se a porsela fosse un cittadino di cultura liberale (un cittadino che chiede allo stato di ridursi, che sa che se non si riducono le spese non si riducono le tasse, che chiede alla burocrazia di funzionare, alla scuola di istruire e poche altre cose).
La risposta, coerente, sarebbe: nessuno.
Oggi, dopo le convulsioni per la elezione del capo dello Stato, la riorganizzazione del sistema politico ha avuto una accelerazione.
È probabile che la sinistra si riorganizzi. Spazio e voti ci sono, compressi nel serbatoio della protesta senza sbocchi di Grillo. È cosa che, da liberale, non mi interessa, ma è giusto e persino opportuno che avvenga.
Renzi completerà la trasformazione genetica del PD e di quel che resta della macchina dello storico comunismo. Costituirà un contenitore poliedrico e negherà ogni appartenenza culturale, affidando la trasformazione della società italiana ad un pragmatismo verniciato di efficienza. Non vi sarà alcun interesse, anzi vi sarà il massimo fastidio, per chi tentasse di rappresentare progetti caratterizzati. È facile prevedere che i benefici della ripresa, che ci sarà, serviranno a consolidare di nuovo uno Stato obeso. I liberali non avrebbero che fare e, peraltro, non sarebbero graditi.
Ma il peggio è nel centro e nella destra. 
La Stampa oggi scrive che il centro destra è “imploso”. 
Stritolato NCD, frantumata Forza Italia dalla nullità di un progetto politico alternativo e dalle contraddizioni di una leadership ancora opprimente, ma invecchiata e gravata di troppi interessi, rimane solo la deriva leghista. La Lega ha lasciato per strada i progetti federali (su cui ora poco sembra insistere) e cavalca invece, con argomenti e linguaggi da osteria di paese, il peggio del peggio: il risentimento verso l’Europa, l’odio per gli immigrati, le crociate religiose.
Nulla che possa lontanamente interessare un liberale.
Nulla che possa, peraltro, essere la premessa per vincere una elezione.
Se questo è il quadro, torniamo alla domanda iniziale.
Antiche speranze di poter riportare un progetto liberale all’interno di formazioni politiche più ampie (quante volte abbiamo parlato della necessità di una “gamba liberale” in Forza Italia!) sono da cancellare dalle nostre prospettive, perchè si sono dimostrate prive di risposte politiche ed oggi sono anche rese inutili dalle norme elettorali di cui si discute.
Non ci resta che una strada: se la riforma pone uno sbarramento al 3%, può non essere impossibile coltivare il sogno di farcela da soli. Ad una condizione preliminare: che nulla di vecchio ci sia e che tutto sia nuovo, nel progetto radicalmente liberale da proporre, negli uomini che lo presentano e nel linguaggio che lo comunicano.

Se a Gloria Guida non fosse venuto in mente di intervistare in tv Teresa Ciabatti nessuno saprebbe chi è. E non ci saremmo persi niente comunque.
La "ragazza degli anni Novanta" dopo aver deprecato l'appartenenza alla P2 di suo padre, medico chirurgo all'ospedale di Orbetello che in casa conservava i lingotti d'oro di Licio Gelli e aveva fatto costruire sotto la piscina della sua villa sul mare un bunker antiatomico e antisommossa, diventa scrittrice. Intervistata nella sua sontuosa casa nel centro storico di Roma dove vive oggi, alla scuola Holden di Alessandro Baricco conosce l'uomo della sua vita: un ricco possidente toscano insegnante di sceneggiatura per hobby, che le dona anche la gioia di un figlio. In una intervista la "scrittrice" ammette che la perdita della vllla di famiglia a Orbetello, cittadina dove è nata e dove ha trascorso l'infanzia, le ha tolto l'identità di "reginetta" (tanto che ha anche tentato di ricomprarsela dal russo che nel frattempo la aveva acquistata).
"Quasi" vincitrice di un premio Strega, questa viziata e capricciosa quarantasettenne non avrebbe venduto nemmeno una copia dei suoi libri se non fosse stata figlia di un massone e oggi moglie di un ricco rampollo che le consente, lo ha dichiarato lei stessa, di passare le sue mattine a letto. Questa è l'Italia di cui non abbiamo nessuno bisogno e di cui dobbiamo liberarci al più presto.

Chi non conosce Franco Arminio non capirà. Il paesologo di Bisaccia da anni scrive libri e poesie fermando nel tempo angoli di paesi dimenticati sull’Appennino meridionale, nella speranza di svegliare dal sonno i comuni dell’Italia interna, amministrati da giunte tramortite da bilanci desolati e da visioni oniriche del tempo che fu. E che ora non è più e mai più sarà.

Il bar è aperto e frequentato da vecchi con le gambe flosce nascoste da bermuda, che alternano la spuma a sequenze di gotti di vino parlando male delle nuore e dei giovani in generale. Un tempo i negozi di alimentari erano tre ed ora ne rimane uno gestito dalla seconda generazione che insiste nel tentare di convincere se stessa che i tedeschi e gli olandesi si rechino in questi luoghi in estate alla ricerca di “quel prosciuttino, del salamino di cinghiale e di quel pecorino locale” non sapendo che le auto dei turisti hanno già caricato negli hard discount di Rotterdam, Berlino e Groningen tutto l’occorrente per togliersi i morsi della fame e che ciò che gli manca lo acquisteranno presso la stessa insegna globale nel primo centro più vicino, evitando di dover portare il loro denaro ai commercianti italiani. Anche perché hanno capito da tempo, grazie alla rete, che quei prodotti di locale non hanno niente e che gli verranno venduti prosciutti ritagliati da suini allevati nell’est Europa, alimentati a ghiande e cherosene. Gli stessi aromi facilmente reperibili allo Spar di Stoccolma, ad un terzo del prezzo.

Il paese è usato per fotografarlo; telefoni acquistati a rate come in tutto il mondo carpiscono migliaia di immagini e i turisti bevono acqua dalle fontanelle, non lasciando alcun contribuito a paesi che ne avrebbero gran bisogno.

I sindaci di questi comuni della Toscana - che non sono diversi da quelli descritti da Arminio in “Vento forte tra Lacedonia e Candela” - mettono insieme giunte di parenti, interessati all’elezione solo per modificare il piano regolatore e consentire finalmente al cugino di condonare la veranda in alluminio anodizzato sperando di vendere poi la casa a qualche investitore disinformato sul crollo del mercato immobiliare, e l’annesso agricolo dove custodire la Mercedes pagata a cambiali con la pensione dello zio.

L’ordine del giorno ricorrente nella convocazione del consiglio comunale è focalizzato come un mantra sull’organizzazione dell'annuale salsicciata agostana, verso cui convergeranno per dieci giorni qualche migliaio di persone in ciabatte alla ricerca del posto libero sulla panca di legno, conquistata a gomitate per consumare il frugale pasto nel borgo. Dopo di che tutti a casa aspettando l’anno prossimo, col serbatoio in riserva.

Non è sufficiente guardare Matera e gridare alla soluzione trovata: nessuno si attiverà per reperire risorse e salvare dalla marginalità centri di mille abitanti che vivono ancora nella verghiana religione della proprietà terriera e dei muri che i residenti si tramandano di padre in figlio. Chi non è nato qui non riuscirà mai a condividere niente, avere un aiuto, una informazione per una casa in affitto in cui vivere senza doverla comprare.

Le bandiere blu e arancioni alimentano le evanescenti politiche del Touring Club, rimasto insieme all’ACI nei film di Carlo Verdone un’istituzione completamente inutile, mentre i vicoli si riempiono di erbacce, le case cascano a pezzi perché le matrone romane e le signore milanesi non capricciano più per avere la casa col camino da far vedere agli amici, ma si scambiano gelosamente gli indirizzi buoni in città dove si mangia con venti euro.

I nonni (non ancora tatuati) lasciano a nipoti supertatuati quello che serve loro ad immaginare una vita senza lavorare, non perché il lavoro non ci sia ma perché sono privi di amor proprio e pensano che questo Paese li possa mantenere per sempre con la birra in mano mentre gli altri, privi di dote e costretti a piegare la gobba, sudano a rifare le camere e a servire i turisti ai tavoli della costa versando i contributi necessari a sostenere le casse dello stato sociale.

La politica è cieca e sorda, non ha strumenti per trasmettere a questi naufraghi della storia il messaggio che il rifugiarsi nel vino e nei dialetti porterà all’autodistruzione, aggrappandosi alle stelle cadenti che in estate restituiscono ancora la speranza che la loro terra riuscirà a sopravvivere.

Mentre gli elettori, incuranti del loro destino, si vendono per una fetta di torta ed una manciata di ciliegie.

 

Era il 1983 e nelle radio il cantante romano Gazebo riempiva con le sue note l'atmosfera spensierata di quel tempo con la sua "I like Chopin". Per alcuni anni avevo tagliato i capelli da un taciturno barbiere di via Cavour, gentile e silenzioso come una tomba etrusca. Gigi conosceva Mimmo già da qualche tempo e mi aveva parlato di questo simpatico ed elegante signore pugliese che in una bottega di via Principe Amedeo a Torino da quasi vent'anni esercitava la professione di parrucchiere.
Riceveva le signore ed i signori nel salone con vista sul portone della Fondazione Einaudi, ed un tabellone cinematografico del film Shampoo appeso al muro del locale dava il nome alla sua bottega e riportava - in una rimodulazione dei protagonisti - il nome suo e quello di Lucia Giordano, la sua socia in affari.

Non tardò ad arrivare accanto alle tre poltrone destinate ai clienti un bellissimo Juke Box dei primi anni sessanta, con la cupola di vetro dalla quale si potevano vedere i 45 giri di Bruno Martino, Mina, Adamo, Giorgio Gaber e altre decine di artisti dell'epoca primordiale della televisione canora. Non era necessario inserire il gettone, un meccanismo consentiva di scegliere senza limitazioni il disco preferito e Mimmo cominciava a seguire le note canticchiando "sei bellissimaaaaa" o pezzi di Celentano mentre il sole inondava di luce il pavimento antico di legno.

Una lanterna rossa e blu, il barber pole americano, girava di continuo appesa sul muro accanto all'uscio che dalla strada con una scala a chiocciola conduceva al salone del primo piano.

Dopo dieci anni di rasature e quattro chiacchiere io e Mimmo avevamo preso l'abitudine di uscire a cena ogni tanto oppure, alla chiusura serale delle 18, recarci nel più vicino bar che avesse le bottiglie aperte e due patatine da sgranocchiare prima della cena. Torino in via Po era, come lo è ancora oggi, gremita di persone che però avevano ancora la buona abitudine di sorridere ogni tanto.

Mimmo conosceva tutti nel suo quartiere: era sua cliente Nicoletta Casiraghi amica liberale di sempre con la quale discuteva ovviamente di politica e di cose buone da mangiare. Il suo lavoro negli anni aveva richiamato moltissime persone a sedersi sulle sue poltrone nella bottega che ai primi anni duemila era stata completamente ristrutturata trasferendosi al piano strada e arredata all'ingresso, sulla destra, da una libreria che conteneva esclusivamente libri scritti da suoi clienti. Professori, imprenditori, politici, sociologi, urbanisti, ed anche io avevamo donato una copia di un libro scritto da noi, a disposizione dei clienti in attesa del taglio.

Non credo di aver mai frequentato un ambiente più giocoso, ricco di energia, di simpatia, di tagliente polemica dove - nell'era della sinistra post Castellani - si potevano incontrare il suo amico e cliente Sergio Chiamparino, ii magistrato Luciano Violante, il nuovo sindaco Piero Fassino, il professor Profumo e decine di esponenti del mondo torinese che in quegli anni a vario titolo si impegnava per la Città.

Uno di loro, Augusto Cherchi, ex collaboratore di Furio Colombo aveva aperto uno studio di comunicazione ricavato in una vecchia fabbrica di pianoforti del quartiere di San Salvario con tanti giovani che lavoravano davanti a coloratissimi iMac. Una sera fummo invitati a partecipare all'inaugurazione dei locali con un bravissimo suonatore di fisarmonica che allietava i convenuti con canzoni di Fabrizio De Andrè, al cospetto di sontuosi vassoi della vicina pasticceria Castellino, di proprietà di una mia ex compagna delle elementari. Vino e musica a volontà, tante risate in un microcosmo torinese che non penso tornerà più.

A queste iniziative io e Mimmo ci presentavamo vestiti in abiti confezionati dal suo amico sarto Pippo Gervasi; me lo aveva consigliato per arricchire il mio stile personale ed aveva un piccolissimo laboratorio dove lavorava sino a tarda ora con il suo aiutante, in via Maria Vittoria a pochi passi dal liceo Gobetti dove avevo studiato. I "tre bottoni" venivano confezionati con tessuti che Mimmo mi suggeriva, recuperati spesso dal suo vicino di negozio Pozzati che da sempre vendeva stoffe all'angolo con via Accademia Albertina. E' impossibile ricordare tutte le persone che abbiamo incontrato in tante serate, alcune in case private, dove l'accoglienza ed il buon cibo (e sopratutto il vino) non mancavano mai. Per anni abbiamo ricordato una memorabile cena in piedi nel bellissimo attico dietro via Roma dell'amico e grande fotografo Franco Turcati, il quale possedeva un meraviglioso frigorifero americano stracolmo di una smisurata quantità di bottiglie di vino proveniente da Codroipo, la sua terra friulana. Lo avevamo letteralmente svaligiato e siamo rientrati a casa ridendo come due adolescenti, quasi sorreggendoci a vicenda. Io abitavo all'epoca un bell'appartamento, sovradimensionato rispetto alle mie disponibilità economiche, in piazza Castello sopra il Bar Patria e questo consentiva di rientrare sempre a piedi godendo la città nelle ore della sera, percorrendo strade vuote illuminate dalle luci gialle che rendevano tutto meraviglioso.

Mimmo lavorava sempre e ad esclusione di un breve periodo in agosto che trascorreva con la famiglia in Sardegna, ogni tanto si recava a Pont Canavese a passeggiare per le strade di quel paese mezzo montano, in una atmosfera gozzaniana. Mimmo era anche tanti personaggi: un Luigi Pirandello per ragioni fisiognomiche, un Gaetano Salvemini interpretato in una bella produzione cinematografica sul deputato socialista meridionalista, realizzato grazie al lavoro di un gruppo coordinato da Carlo Boccazzi. Non si tirava mai indietro quando c'era da fare qualcosa di bello, di stimolante, togliendo tempo al riposo delle sue lunghe giornate lavorative. Uno dei momenti più alti che dal 2004 erano diventati un appuntamento fisso era "la maialata": tenuta inizialmente ogni anno a fine Novembre in un bar/trattoria sempre diverso nelle strade limitrofe al suo negozio, era poi stato organizzato con regolarità presso i locali dell'Associazione dei sardi a Torino (poi divenuto circolo Antonio Gramsci) in via Musinè, nel cuore del Campidoglio; consisteva nel ritrovarsi a cena e far cucinare ai gestori del circolo due maialini fatti venire appositamente dalla Sardegna, annaffiati dal vino che ciascun partecipanete doveva portare con se. Centinaia di fotografie sono state scattate in quelle serate, a testimonianza di un pezzo di Torino che si ritrovava per cantare in compagnia come negli anni Cinquanta, in una atmosfera davvero singolare. Alle ultime edizioni cui ho partecipato era già impossibile trovare posto libero ed era divenuto un appuntamento mondano allietato dalla chitarra dell'amico Giacomo, suo allievo parrucchiere da ragazzo, che cantava e suonava benissimo le canzoni di Celentano.

Enzo Cugusi, animatore del circolo Gramsci ed infaticabile organizzatore di eventi, aveva seguitato nel suo impegno per riunire gli amici negli spazi che Mimmo aveva messo a disposzione in un ridente giardino che aveva acquistato nel frattempo sulla collina di Torino, in quelli che divennero "I lunedì del barbiere" ove spesso si tenevano frugali pasti ispirati alla cultura culinaria della sua Sardegna, dove non mancavano mai secchiate di Negroni sbagliato e acciughe col burro, salame e alla fine liquori e sigari toscani.

Caro Mimmo io ti ricordo così. Me ne sono andato da Torino nonostante i tuoi consigli di rimanere e non sono più venuto a trovarti. Per questo che nel giorno in cui un messaggio mi ha informato che non c'eri più, mi è cascato il soffitto sulla testa. Non è vero che non ne ho avuto il tempo, il tempo per gli amici si trova sempre, ma non avrei mai immaginato che il destino non mi avrebbe concesso una occasione giusta per venire a salutarti come avrei voluto. E così sono venuto al saluto il giorno in cui nella tua bottega erano convenute centinaia di persone per augurarti buon viaggio, dove sul legno chiaro di una bara la bandiera sarda e la maglia di Onda Granata che avevi fatto stampare per gli amici del Toro e del buon vino, facevano da labaro in memoria delle tue passioni.

Sei stato un maestro di vita, il tuo grandissimo cuore generoso non ha retto tutto l'affetto che teneva dentro ed io per questo non ti dimenticherò mai.