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Categoria: Torino20
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Sul finire del 1995, a tre anni dallo scoppio di Tangentopoli e sei anni prima di morire, un grande giornalista che si chiamava Indro Montanelli commentava con un articolo intitolato "Ma il Paese è meglio della classe politica?" la nostra società ammalata di oblio e di incapacità di autodefinirsi con sincerità. Per ricordarlo pubblichiamo l'articolo per intero e chissà mai se leggendolo oggi a qualcuno salterà all'occhio la qualità professionale di Montanelli messa a fianco di troppi pennivendoli prezzolati, servi del potere che non sono in grado di svolgere con serietà il loro mestiere di giornalista.

Al loro posto, ci ripenserei con qualche inquietudine. Sto parlando delle toghe di Mani pulite, e quello a cui ripenserei il giorno in cui un certo signor Chiesa, colto in flagrante bustarella di qualche milione, poco più che una mancia da portaborse, fece saltare il tombino della fogna, che doveva sommergere l’Italia di liquame. Ci ripenserei non per pentirmene; cosa potevano fare le toghe: fingere di non vedere e non sentire ? Quello che con qualche inquietudine al loro posto ci chiederemmo è se si resero immediatamente conto del baratro in cui l’inchiesta stava per precipitare tutta la classe dirigente della Prima Repubblica, e più ancora della forza di contagio che la loro azione avrebbe esercitato su tutte le altre Procure. Dai colloqui che ho avuto saltuariamente con loro, a cominciare dal capo Borrelli e dal suo vice D’Ambrosio, credo di poter arguire che se ne resero conto e che affrontarono l’impegno con piena consapevolezza, convinti, come le eravamo tutti, o come credevamo di esserlo (i pretesti e la varietà degli autoinganni sono infiniti) che, una volta individuato il focolaio della corruzione, bastasse estirpare quello a colpi di bisturi, anche se assestati un po’ fuori dalle regole, per risanare il Paese. Fu il momento del grande idillio fra il pool incarnato da Di Pietro e l’opinione pubblica assetata di castigo e fidente nella guarigione. Le inquietudini cominciarono, sia pure dapprima esitanti e controverse, quando Tangentopoli prese a coinvolgere, com’era inevitabile, i ceti imprenditoriali, e questi, com’era ugualmente inevitabile, le fiamme gialle della Finanza, per poi tracimare in Sanitopoli, e poi in Affittopoli, per metterci alla fine di fronte alla imprevista realtà di millecinquecento ufficiali (uomini con tanto di divisa, di stellette, di riti che impegnano non a una professione, ma a un sacerdozio) indagati per bustarelle sulle forniture di armamenti; nonché un imprecisato numero di corpi accademici accusati d’imbrogli e favoritismi nei concorsi delle cattedre universitarie che dovrebbero allevare i quadri della nuova classe dirigente. Altro che focolaio. Questa è metastasi Un referto che ci lascia muti e sgomenti di fronte all’interrogativo: “Ma in che Paese viviamo?”. In questo Paese, viviamo. E’ l’ora di guardarlo negli occhi. Ma lo è anche di guardarci negli occhi pure tra noi. A tutti, anche a chi scrive faceva comodo pensare che tutto il marcio si annidasse nella classe politica, che bastasse buttare al macero quella per risanare l’Italia, e che per compiere questa operazione bastasse e possa ancora bastare qualche “regola” nuova. Non è così. E se persistiamo in questo autoinganno, al macero ci andiamo tutti. Guai se non troviamo il coraggio di riconoscere che la classe politica della Prima Repubblica era, nella sua putredine, lo specchio di un Paese nel quale la coscienza morale e civile è sempre rimasta monopolio di una esigua minoranza, regolarmente relegata ai margini della vita pubblica, e ora -temiamo – in via dia estinzione. Dicendo questo - e perciò lo diciamo sottovoce e a titolo puramente personale – sappiamo benissimo di tirarci addosso chissà quali anatemi e accuse di disfattismo. Ma se non si parte da questa natura amara e scomoda realtà non ci resta, con buona pace delle toghe di Mani pulite, che richiamare in patria il rifugiato di Hammamet, che in fondo era, nelle sue 50 perchierie e menzogne, il più fedele ritratto. I suoi successori non potrebbero che farcelo rimpiangere.